Scheda 3 – Le arti figurative

Le miniature

La storia della miniatura è legata alla storia del libro: dal papiro, alla pergamena, alla carta, il tipo di calligrafia e quelli che sarebbero i moderni illustratori, i minatori. 

Prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili (XV secolo) i libri venivano riprodotti a mano, ad opera di calligrafi monaci e religiosi, e più tardi laici. Le lettere iniziali, fin dall’antichità classica, venivano decorate con un pigmento rosso-arancione, derivato dal solfuro di piombo, chiamato minio: di qui il nome di miniatura. Con il tempo ci fu una distinzione tra compiti del calligrafo e compiti del miniatore, e hanno iniziato a diffondersi piccoli disegni che abbelliscono le lettere capitali, le parole e gli spazi vuoti.

Le miniature ebraiche

Il popolo ebraico ha sviluppato molto presto la tecnica della scrittura, in virtù dello stretto rapporto con la lettura e con il sapere, caratteristiche fondamentale dell’Ebraismo.

In ebraico la forma per definire la Bibbia è Miqra che deriva dalla radice qr’, gridare ovvero leggere ad alta voce, recitare ed è la stessa che ha dato luogo alla parola Quran, Corano (approfondimenti nella scheda Testi sacri e cantillazione nel Focus Religioni in musica).

Nella Sinagoga, nell’armadio sacro, è contenuto un Sefer Torah (Libro della Legge), che è il Pentateuco, l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio). La parola ebraica Torà deriva dalla radice verbale yrh che esprime l’idea di insegnare. Il suo testo non è vocalizzato; la lingua ebraica infatti nella sua forma classica è scritta senza vocali. 

Fondamentali sono quindi la scrittura e la lettura: lo studio della Torà è considerato come primario dovere religioso.

Il culto del Libro per eccellenza, la Bibbia, si traduce nel rispetto e nella valorizzazione di ogni forma di scrittura e di cultura. In questo senso va quindi letta la presenza di miniature, ornamenti, abbellimenti della scrittura e la diffusione della miniatura in tutto l’Occidente medievale in cui spesso il soggetto è proprio la rappresentazione dell’apprendere, dell’insegnare e della Sinagoga, luogo di studio per eccellenza.

Nella Spagna medievale, luogo di stanziamento su un unico territorio di ebrei, cristiani e musulmani, gli scribi ebrei (soferim), autentici artisti nella calligrafia, erano tenuti in grande considerazione.

I codici considerati più preziosi provengono dalla scuola dei copisti di Toledo; i copisti sefarditi utilizzarono il calamo, mentre gli ashkenaziti e gli italiani la penna.

Miniatura askhenazita

In Germania la calligrafia ebraica col tempo ha assorbito i tratti caratteristici della scrittura gotica in molti manoscritti. La tecnica della miniatura comincia a diffondersi nel mondo ebraico a partire dal IX secolo.

Non si può parlare di uno stile ebraico delle miniature, in quanto in ogni paese le scuole di miniatura si incontravano e fondevano con le caratteristiche del luogo.

Nel corso del XIII secolo gli ebrei posero dei limiti alla rappresentazione della figura umana. I miniatori interpretarono questa “iconografia” rappresentando la figura umana in modo deforme, con teste zoomorfe.

 Esempio di Haggadah

Questa caratteristica si consolidò soprattutto nella miniatura ebraica della Germania meridionale del XIII e XIV secolo. Inoltre le lettere dell’alfabeto ebraico vengono assunte come elementi decorativi, La fonte principale di ispirazione è la Bibbia, i cui motivi e temi servono al miniatore per illustrare anche testi non biblici. Nei principali manoscritti liturgici sono presenti le raffigurazioni delle usanze e dei riti sinagogali e domestici.

Vengono illustrate soprattutto le Bibbie, i libri di preghiere per i giorni feriali e i giorni di festa e, in modo particolare nel mondo ashkenazista, la Haggadah, il testo letto obbligatoriamente durante la cena rituale di Pasqua. La Haggadàh era corredata di numerose miniature a tutta pagina, che rappresentavano episodi biblici. Ma vennero decorati anche i singoli libri biblici, il libro di Salmi e il rotolo di Ester.

Le miniature cristiane

Nel mondo classico non vi sono testimonianza dirette che riportino informazioni sulle illustrazioni e sui loro esecutori, pittori professionisti o miniatori specialisti.

Non vi sono tracce, però, che consentano una chiara identificazione degli artisti che decorano i libri, mentre esiste una grande quantità di informazioni sulla produzione del libro negli scritti di San Girolamo.

Le indicazioni riguardano quasi esclusivamente i calligrafi, anche se la probabilità che quest’ultimo fosse anche miniatore è molto alta, ma fino a noi sono giunte poche firme di miniatori, tra il VIII e il IX secolo.

Negli anni aumenta il numero di miniatori documentati e le due arti di calligrafo e miniatore cominciano ad essere distinte. E compaiono anche i primi nomi femminili, tra cui Ende, una monaca, che viene citata come collaboratrice di Emeterius nell’Apocalisse di Gerona nel 975. Nel XII secolo compaiono i primi miniatori laici, professionisti attivi che operano dietro pagamento in denaro o in natura.

Nel tardo Medioevo alcune fonti attestano che i miniatori avevano il divieto di usare colori diversi da quelli ad acqua: i colori ad olio, l’oro e l’argento, potevano utilizzarli solo i membri della Corporazione dei Pittori.

A partire dalla seconda metà del XV secolo il commercio dei libri aumenta e impiega molte persone sia nella produzione, sia nell’organizzazione delle vendite. Migliora decisamente ance la condizione sociale dei miniatori: diventano spesso membri relativamente influenti della comunità, soprattutto coloro che venivano chiamati a lavorare nelle corti o dai grandi mecenati.

I miniatori medievali utilizzavano tre tipi di materiali: il papiro ricavato dal papiro del Nilo, la pergamena o il vello (pelle di animale conciata, prevalentemente di mucca, capra o pecora) e infine la carta. Nel mondo antico il papiro fu il supporto principale per la scrittura: “i fogli venivano incollati insieme e arrotolati in rotoli di varia lunghezza sui quali si scriveva in corte colonne da leggersi orizzontalmente; la pergamena andò presto a sostituirlo, in parte per motivi economici e in parte per la diffusione del cristianesimo. 

La pergamena, forniva una superficie molto ricettiva sia per la scrittura che per la miniatura e, potendola ricavare da animali diversi, era possibile variare colore, perso e dimensioni; così nell’Europa occidentale rimase il materiale per i libri di lusso anche dopo la diffusione della carta a partire dal XIII secolo.

Miniatura medievale di una Natività

I miniatori utilizzavano diversi strumenti: per il disegno utilizzavano uno stile con punta di metallo o in osso, veniva usata anche la grafite (matita).

La procedura del lavoro dei miniatori, era abbastanza articolata.

Innanzitutto le miniature dovevano conformarsi alla colonna dello scritto per la larghezza e alle righe dello scritto per l’altezza; il calligrafo faceva delle righe sulla pagina per indicare il posto esatto in cui posizionarle. L’artista cosi iniziava con l’impaginato creando un modello di composizione che metteva immediatamente in relazione lo scritto e la decorazione della pagina.

Il passo successivo consisteva nel fare un disegno con la grafite. Il disegno veniva normalmente ripassato con l’inchiostro in un secondo momento. Si passava poi alla stesura del colore. Nel penultimo stadio gli strati di colore venivano ricoperti con toni più forti o più leggeri in modo da dare delle ombreggiature o punti luce. L’ultimo stadio era raggiunto quando l’artista tracciava il contorno dove la lamina d’oro doveva essere rifilata agli orli, nonché i profili delle figure e delle pieghe dei vestiti.

Nell’Alto Medioevo (650-110) generalmente il calligrafo era spesso anche miniatore e quindi, dato che il compito del calligrafo era quello di trascrivere fedelmente il testo che aveva davanti, anche nella ideazione e realizzazione delle miniature l’artista copiava delle immagini da un modello e questa azione era considerata un atto di obbedienza all’ autorità.

Tra il XI e XII secolo, nell’epoca della riforma monastica, si sviluppa l’ordine benedettino, che diventa prestigioso committente delle arti in generale.

Un secondo elemento importante di questo periodo è rappresentato dalla crescita del livello di alfabetizzazione e dalla conseguente domanda di libri le scuole di produzione.

A partire dal XIII secolo vi è una relazione sempre più stretta tra stile dei miniatori e lo sviluppo e la diffusione, soprattutto in Italia, della pittura su tavola. Lo status dell’artista continua ad elevarsi, anche se l’arte del miniare viene considerata un’arte minore.

Nei secoli XIV e XV cambia la committenza e vengono richieste nuove modalità di illustrazione soprattutto per i testi laici e un nuovo atteggiamento nei confronti delle immagini religiose, la loro funzione ed il loro scopo.

Compare anche una nuova tipologia di libri di modelli per i miniatori: non si tratta più di una raccolta di produzioni per pubblicizzare le capacità del miniatore, quanto piuttosto di un vero e proprio manuale d’istruzione completo di indicazione di tecniche e con repertori di immagini.

Miniatura che rappresenta un miniatore

Per i miniatori lo studio era, inizialmente, soprattutto l’attività del copiare, del riprodurre i testi sacri e il sapere della tradizione e di abbellirli con immagini, apprendere significava ripetere e insegnare significava commentare i testi sacri. Il sapere diventa progressivamente autonomo e si libera lentamente dai vincoli dell’obbedienza ai dogmi. Il manoscritto si arricchisce, dunque, di immagini miniate, capilettera ornati, bordi, figure e i miniatori forniscono non solo una rappresentazione di se stessi, ma anche quella dei luoghi dove sviluppano la loro attività di studio, dove sapere, arte e tecnica si fondono e contribuiscono allo sviluppo della cultura dell’immagine.

Le icone

Il termine icona deriva dalla parola greca “eikon” che significa “immagine, figura”. Essa compare nel VI e VII secolo come una delle manifestazioni della sacralità della tradizione bizantina, diffusasi in terra orientale e differenziata a seconda delle aree geografiche nelle quali si sviluppa.

La leggenda vuole che la prima icona della storia rappresenti il volto di Gesù impresso su un velo detto Mandylion (mantile, sudano).

  Santo Volto – S.Bartolomeo degli Armeni

La storia comincia a Edessa, a pochi giorni dalla passione e morte di Cristo. 
La città di Edessa, oggi Urfa in Turchia (al confine con la Siria), era la capitale di un regno su cui regnava il re Abgar V, soprannominato Ukama, o il Nero. Egli vi introdurrà il Cristianesimo con l’intervento di Taddeo, uno dei 70 discepoli di Cristo, lì inviato da Tommaso apostolo, dopo la Pentecoste.
Il re era malato di lebbra e di gotta. Per guarire aveva provato vari rimedi, ma inutilmente. Venuto a sapere dei miracoli che un certo Cristo compiva a Gerusalemme e anche dell’ingratitudine dei Giudei nei suoi confronti, affidò ad un bravo ritrattista del luogo, un tale Anania, due incarichi: consegnare una lettera a Gesù, in cui gli chiedeva di guarirlo e lo invitava anche a stabilirsi nella città di Edessa, ed eseguire un suo ritratto il più possibile fedele.  Anania si reca a Gerusalemme, consegna la lettera a Gesù e poi mentre attende la risposta prova a ritrarlo, ma non ci riesce. È lo stesso Gesù che bagnandosi il volto e asciugandosi con un telo di lino vi imprime sopra i suoi lineamenti e fa consegnare il telo ad Anania insieme con una lettera di risposta: in questa lettera spiega al re che egli deve rimanere a Gerusalemme, lo chiama “beato” perché credeva in Lui e gli preannuncia la guarigione completa ad opera del discepolo Taddeo che sarebbe giunto da lui.
Abgar dopo aver avuto il ritratto e la lettera guarisce subito dai suoi mali, ad eccezione della lebbra sulla fronte, che sparirà con la venuta dell’apostolo Taddeo.

La lettera sarebbe stata conservata negli archivi della città di Edessa. Eusebio di Cesarea la cita nella sua Storia ecclesiastica, opera che tradotta in latino avrà grande diffusione in Occidente e determinerà anche la diffusione della lettera, nota fino al XVII secolo persino in Inghilterra. 

Questa leggenda, che è ricordata nella liturgia orientale (es. il 16 agosto cade la festa bizantina della traslazione del Mandilion da Edessa a Costantinopoli) ci indica come dobbiamo concepire l’icona ed il pittore di icone:


– l’icona è un mezzo attraverso cui l’uomo riceve aiuto, salvezza, sapienza;

– chi la dipinge, (meglio chi la “scrive”, perché l’icona è considerata “Vangelo in immagini”) diventa il tramite per questo passaggio di grazia.


La Chiesa benedice l’icona ed essa diventa così un “sacramentale, cioè uno dei “segni sacri”, per mezzo dei quali per intercessione della Chiesa gli uomini vengono disposti a ricevere l’effetto principale dei Sacramenti e le varie circostanze della vita vengono santificate.

Attraverso l’icona si apre una finestra sul divino, che si venera e si prega. Esse si trovano sia in chiesa che nelle singole case; ne esistono anche alcuni formati da viaggio.

Iconostasi – Cattedrale dell’Annunciazione di Mosca

In chiesa si trova sulle pareti dell’edificio e nell’ “Iconostasi”, letteralmente “luogo delle icone”; l’Iconostasi è un tramezzo ricoperto di icone rivolte verso i fedeli, che divide la navata dal presbiterio: ricorda la storia della salvezza e simboleggia tutto il mondo celeste e la nuova umanità della quale tutti noi siamo chiamati a far parte. Tra le immagini più frequenti quelle della Madre di Dio e di Giovanni il Battista, ai lati del Salvatore in Trono, in atto di supplica (la Deesis) per l’umanità.

L’icona è parte integrante della liturgia. Davanti ad una icona non si è mai degli spettatori e basta, si è interpellati, chiamati; l’icona, infatti, richiede di partecipare a ciò che essa mostra, che è l’invisibile nel visibile.

Ma non solamente l’immagine di Gesù può e deve essere raffigurata. Tutti i segni della celebrazione liturgica sono riferiti a Cristo, lo sono anche le immagini di Maria e dei santi, poiché significano Cristo che in loro è glorificato.

 Pantocratore – Icona del Sinai

Nel settimo Concilio Ecumenico la Chiesa ha riconosciuto legittimo che venga raffigurato mediante “venerande e sante immagini”. Al tempo stesso la Chiesa ha sempre riconosciuto che nel Corpo di Gesù il “Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne”. In realtà, le caratteristiche individuali del Corpo di Cristo esprimono la Persona divina del Figlio di Dio. Questi ha fatto a tal punto suoi i lineamenti del suo Corpo umano che, dipinti in una santa immagine, possono essere venerati, perché il credente che venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto.

Nella riproduzione nulla è lasciato al caso; persino la posizione di una mano può avere un alto significato teologico. La luce, la prospettiva rovesciata e le proporzioni, sono tra gli stilemi fondamentali di tutte le icone. La luce naturale non ha alcun valore, ma sia essa che tutti i colori terreni sono soltanto luce e colori riflessi. Nell’icona quindi non c’è mai né ombra né chiaroscuro; il fondo e tutte le linee e le sottolineature d’oro vogliono proprio significare una luce sovrannaturale.

La prospettiva è “rovesciata” (termine coniato da Florenskij all’inizio del secolo scorso), poiché le linee si dirigono in senso inverso rispetto a chi guarda, cioè non verso l’interno del quadro, ma verso l’esterno; dando allo spettatore l’impressione che i personaggi gli vadano incontro. La tridimensionalità non viene rappresentata, in quanto la profondità è data solo dall’intensità degli sguardi. Potremmo suddividere le fasi di realizzazione di un’icona in tre parti: preparazione della tavola e gessatura, disegno e doratura, pittura e rifiniture.

Preparazione della tavola e gessatura

Le tavole per icone sono solitamente realizzate in legno di pioppo o di tiglio. Omogeneità e tenerezza sono caratteristiche fondamentali per realizzare una buona tavola. Il legno deve essere ben stagionato, privo di nodi e resine. Per garantire una buona stabilità nel tempo e contrastare eventuali deformazioni, soprattutto imbarcamenti e svirgolamenti, è necessario realizzare tavole munite di traverse posteriori con incastri a coda di rondine. Realizzata la tavola, si tracciano leggeri intagli sulla superficie del legno al fine di garantire una migliore presa della tela che si incollerà al supporto. Questa garantirà un passaggio tra la tavola e il gesso in modo che eventuali movimenti del legno non incidano sull’integrità della gessatura e della superficie pittorica. Conclusa questa fase, la tavola è pronta per essere ingessata. Il levkas (nome utilizzato per descrivere lo strato di gesso) è composto da una miscela di gesso di Bologna, bianco di Medon e colla di coniglio. Una volta preparato il prodotto, il gesso viene steso sulla superficie intelaiata e fatto asciugare accuratamente (circa 8 mani), rifinendo il lavoro con spatole e carta vetro sottilissima al fine di realizzare un supporto estremamente liscio e omogeneo.

Disegno e doratura

 Doratura di un icona

Scelto il soggetto da dipingere, e studiati accuratamente i modelli che la tradizione artistica offre all’iconografo, si passerà a realizzare il disegno a matita. Dopo eventuali correzioni si procederà alla preparazione della doratura. Utilizzando una punta di metallo duro si incidono i bordi del disegno e dell’aureola. L’incisione non dovrà essere troppo profonda, ma servirà come traccia sotto la superficie dorata per dipingere successivamente ciò che è stato inciso. Generalmente possiamo distinguere due tipi di doratura. La prima, più lucente, con effetto “a specchio”, è chiamata doratura a bolo. Il fondo morbido di terra (bolo armeno) consente di lucidare la foglia d’oro attraverso la pietra d’Agata. La seconda, detta “a missione”, ad acqua o a olio, dona all’icona una luce più calda e meno luminosa.

Dopo aver applicato la foglia d’oro e realizzato la doratura, con un pennello molto morbido, di pelo di martora o scoiattolo, si spolvera l’oro in eccesso e si protegge la superficie con un velo di gommalacca.

Pittura e rifiniture

Prima di iniziare a dipingere prepariamo l’emulsione che useremo come legante per i pigmenti naturali (terre, minerali, colori organici naturali estratti da vegetali, ecc.). Usualmente la ricetta tradizionale mischia un rosso d’uovo con due parti di vino, o aceto bianco, e una parte di acqua.

La realizzazione di un’icona prevede fasi diverse. Il soggetto emerge gradualmente passando dai toni scuri e indefiniti di ombre e grafie, alle lumeggiature più chiare e definite dei volti e delle vesti. Cominceremo prima di tutto dalla ripresa delle grafie che avevamo precedentemente disegnato a matita sul gesso. Con un colore scuro ripasseremo tutto il disegno, e con lo stesso colore, diluito e sfumato, realizzeremo le ombre necessarie. Con un pennello più largo e un colore sufficientemente trasparente dipingeremo le campiture di abiti ed edifici. Sugli incarnati stenderemo una campitura verde scura chiamata Sankir. Questo fondo colorato servirà non solo come base per i colori successivi, ma anche come ombra nelle zone meno illuminate degli incarnati: contorno viso, orbite degli occhi, pieghe del collo, ecc. Con graduali schiarimenti successivi modelliamo volti, mani e piedi. Utilizzando ocre gialle e pigmenti bianchi realizziamo strati di pittura sempre più stretti e luminosi, al fine di dare luce e volume alle diverse parti del corpo. Velature di ocre gialle e aranciate, con cinabro e bianco, renderanno i diversi passaggi più armoniosi e caldi.

Il processo di modellatura si concluderà rafforzando le zone più sporgenti, e luminose del corpo, con sottili tratti di colore bianco, e quelle meno illuminate, con leggeri arrossamenti di cinabro.

Anche per abiti, paesaggi ed edifici, si procederà con schiarimenti successivi sempre più ristretti, rafforzando grafie ed ombre con colori più scuri, ed evidenziando le zone più luminose con colori più chiari ed intensi.

Conclusa la fase pittorica, si passerà alle iscrizioni e alle rifiniture. Le scritte apposte sulle icone si realizzano usualmente nelle lingue liturgiche tradizionali della Chiesa (greco, slavo, latino, arabo, ecc.). Normalmente, per far aderire la calligrafia all’oro, bisognerà mescolare il colore al fiele di bue. Solitamente con lo stesso colore si dipingeranno le iscrizioni, l’aureola e il filo di bordatura della tavola.

Terminati questi passaggi, proteggeremo la superficie pittorica mediante una vernice trasparente che garantirà all’icona luminosità e protezione. Tradizionalmente si usa l’olifa, una vernice a base di olio di lino al quale si aggiunge un essiccante, o vernici sintetiche in grado di garantire lo stesso effetto e la stessa protezione.

Le vetrate artistiche del Tempio valdese di Piazza Cavour

Il Tempio valdese di Piazza Cavour ha al suo interno una serie di vetrate artistiche realizzate con l’antica tecnica della legatura a piombo, promossa a Roma dal 1911 al 1929 da un gruppo di artisti tra cui il pittore Paolo Antonio Paschetto che la introdusse nell’ambiente protestante romano. L’esecuzione prevede una fase di progettazione e una di realizzazione. Quest’ultima si effettua scegliendo delle lastre di vetro – diverse per tipologia e colore in relazione al disegno finale – e si esegue il taglio per ottenere delle tessere da assemblare con un trafilato di piombo. Infine si provvede alla stuccatura per eliminare gli interstizi tra le tessere e il trafilato di piombo e si procede alla messa in opera della struttura, solitamente in un’intelaiatura di metallo. L’utilizzo di vetri opalescenti contribuisce alla definizione delle linee del disegno della vetrata grazie alle loro numerose venature, che hanno consentito a Paschetto di supplire all’elemento pittorico, così come in largo uso nel periodo Art Nouveau.

Le vetrate sono disposte nei tre ordini in cui è articolata architettonicamente la chiesa. Nel primo ordine vi sono sedici vetrate, dieci nella navata sinistra e sei nella destra; il secondo è formato dalle vetrate che illuminano il matroneo, sei per la navata sinistra, quattro per la destra e altre sette sulla facciata; il terzo ordine accoglie dodici vetrate decorative, sei per navata. Il rosone è visibile solo dall’esterno ed è decorato con cobochon blu e viola.

È importante soffermarsi sulle vetrate del primo ordine: il pavone, l’aquila, il faro, l’arca, la lampada, il rovo ardente, l’ancora sono delle vere e proprie incisioni xilografiche, forme espressive che segnano lo sviluppo del Liberty in Italia.

I motivi artistici, inoltre, assumono un significato simbolico, sia presi singolarmente che considerati parte di un discorso unitario. C’è sicuramente un recupero dell’iconografia paleocristiana sia nei soggetti sia nella volontà di comunicare immediatamente al “lettore” e rendere accessibile il messaggio, sia tramite il simbolo che attraverso il brano dell’Antico e Nuovo Testamento accompagna l’immagine.

Nella navata di destra le prime due vetrate parlano di Dio e del suo rapporto con gli uomini attraverso le immagini bibliche del rovo ardente – “Io sono quel che sono” (Esodo 3:14) – e del monogramma cristiano – “Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Apocalisse 22: 13) – . Le successive vetrate segnano il percorso del rapporto del cristiano con Dio attraverso immagini come la colomba – “L’anima mia agogna a te, o Dio” (Salmo 42: 1), il giglio – “la promessa che l’anima vedrà Dio” (Matteo 5:8), l’agnello – “La riconciliazione fra Dio e l’anima umana” (Giovanni 1:29) e l’ancora – “La speranza è l’ancora dell’anima” (Ebrei 6:18-19) – .

Abside

Il primo messaggio espresso nella navata di sinistra è quello della Vita Eterna, trasmesso dalle prime due vetrate che rappresentano il pavone e l’aquila, simboli di immortalità. Nelle quattro vetrate successive sono raffigurati il candeliere e la vite, il faro e il Buon Pastore che, accompagnati da versetti evangelici, rappresentano la vita cristiana che rassicura i fedeli di “camminare sicuri ai pascoli del buon Pastore” (Giovanni 10:11). I sacramenti del Battesimo e della Santa Cena sono illustrati con l’arca, il calice e il pane, mentre la fede viene trasmessa con l’immagine delle ultime due vetrate: la palma – “quel che riporta la vittoria sul mondo è la nostra fede” (5:4)) – e la lampada – “Il giusto vivrà per fede” (Galati 3:11).

È infine necessario citare l’abside, animato da figure geometriche, al cui centro spicca la grande croce su fondo d’oro, simbolo dell’infinito e del divino, così come nelle icone ortodosse.

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23 Marzo 2021